Il manager della felicità

“Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno” Khalil Gibran

 

Nel corso della pandemia si è assistito ad un fenomeno particolare: l’addio alle aziende da parte di molti profili, anche qualificati, che hanno rivisto le loro priorità, nel desiderio di dedicare più tempo al proprio benessere individuale, alla propria famiglia, alle relazioni interpersonali.

In Italia nel secondo trimestre del 2021 si sono dimesse 484mila persone (il picco negli ultimi 5 anni), la maggior parte delle quali ha rinunciato al cosiddetto “posto fisso” o a un’occupazione diventata troppo consueta per ricercare una realtà lavorativa più stimolante, sia sul piano dei contenuti e delle relazioni fra colleghi, sia dal punto di vista della quantità e qualità del tempo dedicato.

Un evento di rottura come quello pandemico, che ha avuto impatti dirompenti sul mondo della sanità, della scuola, dell’industria, trasformando abitudini ed attitudini delle persone, ha portato con sé la sensazione di “scampato pericolo” riproponendo la ricerca di una strada verso la felicità, al di là della routine e della propria zona di comfort. Cambiare vita in modo drastico non è concesso a tutti, ricercare un piccolo gradiente di serenità in più, a partire dall’ambiente professionale. sicuramente sì.

Cosa si intende, dunque, per felicità? Epicuro affermava che il piacere è quiete ed assenza di dolore, ed inizia nello stare bene con sè stessi, fra imperturbabilità e libertà. Gli Stati Uniti hanno inserito nella dichiarazione di indipendenza del 1776 il diritto alla felicità, in un’accezione morale, etica ed economico. Il consumismo ha proposto elementi, prodotti, proposte più effimere, alla ricerca di sensazioni di benessere da ottenere velocemente ma altrettanto in fretta dimenticate.

Le aziende più evolute si fanno interpreti del cambiamento, cercando di valorizzare la risorsa umana all’interno del sistema, non soltanto sul piano dell’welfare, dei benefit, della monetizzazione, della carriera, ma operando per costruire un’organizzazione positiva. Nascono così i manager della felicità, parafrasando il termine Chief Happiness Officer (CHO), introdotto nel mondo anglosassone, da sempre un passo avanti nella definizione e sperimentazione di nuovi modelli organizzativi e gestionali.

Questa figura, a dispetto della qualifica romantica, avvia il suo percorso dall’analisi dei dati: in Europa 40 milioni di lavoratori soffrono di stress da lavoro correlato, il 70% delle persone dichiara di non amare il proprio lavoro, il 57% è alla ricerca di una nuova occupazione, solo 3 lavoratori su 10 ritengono ascoltate le proprie opinioni nell’ambiente lavorativo. Interessante la misura dell’infelicità: si tratta di circa 16mila euro annui per ciascun dipendente infelice, calcolabili come minor produttività, maggiore assenteismo e maggiori spese sanitarie.

In Italia i segnali sono analogamente rilevanti: il 40% dei lavoratori intende cambiare attività nei prossimi 12 mesi, e tale indicatore è inferiore solo tra i professionisti e le partite iva, che apprezzano la flessibilità, nonostante le difficoltà nel reperire clienti, nel far fronte alla tassazione e nel gestire i crediti. Si dice inoltre che le persone valide non lascino le aziende, ma i loro capi, e che fra i fattori critici vi siano i carichi di lavoro eccessivi e l’assenza di autentica meritocrazia.

Il nuovo Chief Happiness Officer interviene su vari aspetti, tangibili e intangibili, avviando l’ascolto delle esigenze a tutti i livelli e monitorando costantemente le tendenze, gli interessi, le indicazioni che giungano dai collaboratori. Cerca di promuovere ambienti di lavoro ecosostenibili e confortevoli, creando spazi interni dedicati allo sport e al relax, coinvolge con politiche attive le risorse umane sia rendendole partecipi dell’andamento dell’azienda, sia sviluppando progetti benefici per il territorio.

Una recente ricerca universitaria presenta dei numeri interessanti: le persone felici rendono fino al 20% di produttività in più, chi è soddisfatto del proprio lavoro esprime il 54% in più di capacità di concentrazione, e nelle aziende “sane e serene” diminuiscono del 40% gli incidenti sul lavoro. Le organizzazioni positive sviluppano un +300% di capacità di innovare e registrano un -50% in termini di turnover del personale. Le aziende “gentili” si posizionano inoltre ad un livello fino a 14 volte superiore nei ranking economico-finanziari, con un +4% di margine operativo realizzato; in queste realtà anche i casi di stress da lavoro correlato si riducono al minimo, con il conseguente minor ricorso a contenzioni o a procedure di conciliazione, spesso lunghe, faticose e dispendiose.

Ridurre i costi del malessere senza perdere di vista il business, ma anzi valorizzandolo, e considerare la felicità una competenza strategica sono dunque spunti fondamentali per le organizzazioni che vogliono crescere in dimensioni e qualità, che guardano ad un orizzonte di medio-lungo termine e non si fermano alla contingenza e all’operatività quotidiana.

Il capitale umano è il valore chiave da salvaguardare, in tutte le imprese, se possibile con formule e modalità manageriali e innovative.

 
 

Tratto da: Dentrocasa novembre 2022