Italia, terra di conquista

Molte aziende del BelPaese cedono il passo ai colossi stranieri: è l’unico percorso possibile?
 
Negli ultimi 20 anni si è allungata la lista delle aziende Made in Italy acquisite da holding finanziarie asiatiche o da multinazionali straniere. Dal lusso al food, dalla moda all’hotellerie, non vi è settore che non sia risultato appetibile per i grandi gruppi internazionali: simbolo di qualità ed eccellenza nel Mondo, le aziende italiane sono passate dalle mani e dalla gestione degli imprenditori nostrani al management di fondi e finanziarie.
 
Il BelPaese è terzo nella classifica europea, come meta degli investimenti per acquisizione.
 
Già in periodo pre-Covid si contavano circa 700 imprese italiane controllate da trecento gruppi asiatici, ove la manodopera presenta costi nettamente inferiori, inibendo la concorrenza e la competitività del Vecchio Continente.
 
Dal 2008 ad oggi le società cinesi hanno investito nella chimica (48,8 miliardi di dollari), nell’energia (25,9 miliardi di dollari), nelle attività estrattive (23,1 miliardi), nel software (14,8 miliardi) e nella finanza (14,3 miliardi), puntando a rilevare l’unicità delle imprese italiane ed il patrimonio, rappresentato da brand riconoscibili e riconosciuti nel Mondo.
 
Se è chiara, dunque, la motivazione che porta i colossi esteri ad investire nel BelPaese, non è così semplice ed univoco individuare le ragioni che inducono i più brillanti imprenditori a cedere le loro aziende gioiello.
 
Alcuni casi rilevano difficoltà nel passaggio generazionale, inesistente o conflittuale, tanto da indirizzare l’impresa verso mani straniere, in altre situazioni la criticità è la governance, spesso nelle mani di un solo soggetto o di un sistema familiare, forte in termini di conoscenza del prodotto e del territorio, ma debole sul piano degli strumenti e della cultura manageriale, indispensabili per supportare la crescita. Piccolo è bello, ma non sempre è sostenibile dinanzi all’avanzata delle multinazionali, in grado di gestire economie di scala negli acquisti, innesto all’avanguardia di tecnologia e digitalizzazione in produzione, organizzazione strutturata della forza vendita, selezione dei migliori profili e formazione continua del personale.
 
Si assiste talvolta anche ad una più generale stanchezza dell’imprenditore del territorio, che quotidianamente si deve confrontare e a volte scontrare con la burocrazia ed i numerosi adempimenti che allungano i tempi dell’innovazione e dello sviluppo.
 
Il rischio della globalizzazione massiva del tessuto imprenditoriale italiano porta inevitabilmente ad una perdita di know-how sul territorio, all’omologazione di procedure e processi, all’affievolirsi dell’unicità di stile e prodotto, tipici della creatività ed eleganza del nostro sistema Paese.
 
Si auspica dunque un supporto fattivo da parte delle Istituzioni, per rafforzare il sistema produttivo e garantirne continuità e innovazione, vera anima del nostro DNA…nonostante tutto.
 
 
 

Tratto da: Dentrocasa gennaio 2022