Le donne costituiscono il 44% dei cervelli in fuga: giovani, colte, ambiziose, nonesitano a cercare spazi di studio e lavoro anche oltre frontiera, come e più dei loro colleghi, talvolta rappresentati dallo stereotipo del fanciullone viziato dalla tipica mamma italiana. Il nostro Paese sta lentamente ma inesorabilmente emergendo nello sviluppo di professionalità femminili: le donne dirigenti nel settore privato sono poco più del 15%, con una crescita del 18% negli ultimi 5 anni. Crescono ancor più le donne quadro, pari al 28% del totale, con una crescita del 25% nel quinquennio.
A tutti i livelli, e nonostante la crisi, negli ultimi anni le donne occupate aumentano (+6,2% negli ultimi dieci anni), diminuiscono invece gli uomini occupati (-3,9% nel decennio); si rappresenta nei numeri e nei fatti una modalità più moderna di conciliare famiglia, maternità e attività professionale, finalmente recepita dalle nostre imprese.
Guardando alle posizioni di vertice, Roma batte Milano: le dirigenti sono più presenti in Lazio (19,7%) che in Lombardia (17,1%).
Il settore economico più rosa è quello della sanità e assistenza sociale, dove le donne dirigenti superano il 42%; l’ultimo è quello delle costruzioni, con il 7,8% di signore in posizioni di rilievo.
Nella mia attività professionale approccio spesso con imprenditrici e professioniste eccellenti nei loro ambiti di competenza: i punti di forza comuni a tutte loro sono senza dubbio la tenacia e la precisione con cui perseguono ed ottengono i risultati, la concretezza nel gestire il presente e lo sguardo alla pianificazione a lungo termine, la capacità di organizzare le risorse umane e salvaguardarne le relazioni, ponendosi in ascolto dei diversi interlocutore. L’appunto che ricorre è che “le donne non sanno fare squadra”: credo stiano imparando anche in quest’ambito a credere nelle potenzialità di un asse aziendale tutto o in prevalenza femminile.
D’altra parte, e questo credo sia un pensiero condiviso e condivisibile, un’economia competitiva rispecchia i pesi in gioco nella collettività di riferimento, una società ove le donne contano, non solo numericamente, ma in quanto guida dei consumi personali e familiari.
Non è dunque un caso, o un regalo, vedere crescere le donne ai vertici, è anzi uno spazio faticosamente guadagnato che deve diventare appannaggio ed opportunità per tutti, al di là del genere, della cultura, delle abitudini e delle attitudini.
Non solo, dunque, quote di colore, ma autentiche quote di merito.
Tratto da: Dentrocasa marzo 2016