L’evento pandemico che ci ha, nostro malgrado, accompagnati negli scorsi due anni, ha messo in luce un problema di rilievo: la cronica carenza di medici ed operatori sanitari nel nostro Paese.
Circa mille laureati o specialisti nelle discipline della salute lasciano ogni anno l’Italia, per cogliere opportunità di lavoro negli altri Paese: i medici italiani che prestano servizio nel Regno Unito sono oltre 3mila, l’1,1% degli iscritti annuali alla facoltà universitaria.
Nel nostro Paese, formare un medico costa circa 150.000 euro l’anno: in termini economici è come se regalassimo mille vetture di lusso all’anno agli altri Paesi europei ed extraeuropei.
Il danno economico è solo una parte della questione: perdiamo competenza, talenti, sviluppo della ricerca scientifica, sostenibilità professionale.
Il mancato ricambio generazionale, le esigue possibilità di carriera nel mondo ospedaliero, le difficoltà di avvio di attività libero professionale, gli stipendi inferiori a quelli dei colleghi degli altri Paesi a fronte di responsabilità crescenti, un livello di contenzioso elevato e turnistica sempre più gravosa per carenza degli organici ed assenze: queste sono le motivazioni prevalenti per i medici, per lo più under40, che scelgono di lasciare la loro patria per recarsi a lavorare all’estero. I programmi e le agevolazioni per il “rientro dei cervelli” attraggono solo una minima parte di queste risorse, abituate ad operare con modalità più flessibili, più remunerate e più aperte all’innovazione.
Il de-finanziamento della sanità è stato avviato con la crisi economica del 2008, quando il controllo della spesa per il personale sanitario è diventato la leva per raggiungere la stabilità economico-finanziaria nelle Regioni.
In parallelo è stato confermato il numero chiuso per l’accesso alle Università, determinando uno squilibrio fra uscite per pensionamento ed ingresso di neolaureati nel mondo del lavoro. Per i prossimi 10 anni si prefigura uno scenario drammatico: la quiescenza per oltre 47mila medici ospedalieri, oltre 8mila universitari e circa 30mila medici di medicina generale. Elemento di criticità è l’osmosi fra generazioni, e la collaborazione dinamica fra Università e strutture ospedaliere del territorio, per consentire un percorso formativo adeguato sul campo per gli specializzandi.
Nonostante le evidenze emerse con la pandemia, il Piano di ripresa e resilienza (PNRR) dedica “solo” 9 miliardi in 5 anni (degli oltre 200 miliardi complessivi) di fondi alla Sanità, suddividendo l’investimento fra il rafforzamento della rete territoriale, attraverso le case della comunità e gli ospedali di comunità – che richiederanno a loro volta risorse umane aggiuntive, in termini di medici e paramedici – e sull’evoluzione e l’applicazione della telemedicina.
Non è semplice identificare una strada maestra per far crescere e rendere attrattivo il sistema per le nuove generazioni, né è possibile cancellare con un colpo di spugna l’eredità di anni di storia, tuttavia è essenziale una seria programmazione strategica e operativa nel settore della salute, la cui centralità non può essere messa in discussione o essere oggetto di tagli lineari e indifferenziati.
Tratto da: Dentrocasa giugno 2022